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Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 4, Statuto dei Lavoratori nel testo risultante dalla «Riforma Fornero» nella parte in cui attribuisce natura risarcitoria e non retributiva alle indennità corrisposte al lavoratore dopo l’ordine di reintegrazione non eseguito. In caso di riforma della decisione che ha disposto la reintegrazione, l’indennità corrisposta al lavoratore che non è stato materialmente reintegrato deve pertanto essere restituita. La disposizione non è irragionevole, come sospettato dal rimettente, ma è coerente al contesto della fattispecie disciplinata.
Il Tribunale di Trento sollevava la questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 3, comma 1, Cost., per la quale si poteva dubitare della legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 4, Statuto dei Lavoratori nella «nella parte in cui […] attribuisce, irragionevolmente, natura risarcitoria, anziché retributiva, alle somme di denaro che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere in relazione al periodo intercorrente dalla pronuncia di annullamento del licenziamento e di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro provvisoriamente esecutiva fino all’effettiva ripresa dell’attività lavorativa o fino alla pronuncia di riforma della prima».
Come evidenzia lo stesso Tribunale, una diversa soluzione sortirebbe l’effetto di precludere la ripetizione delle somme al datore di lavoro che adempie all’ordine del giudice; consentendola, invece, al datore che, inadempiente rispetto a tale ordine, si limiti a versare la retribuzione a titolo risarcitorio, «scommettendo» sulla sua ripetibilità in caso di esito vittorioso della controversia. Ciò costituirebbe un vulnus alla razionalità del sistema, in violazione dell’art. 3, comma 1, Cost.
Di diverso parere la Corte Costituzionale la quale ha respinto i dubbi di legittimità evidenziando la differenza tra le due situazioni prospettate.
Preliminarmente, la Corte annulla la premessa giuridica della tesi del rimettente: l’art. 2126 Cod. civ. può trovare applicazione soltanto nel caso ivi esplicitamente contemplato in cui, pur in assenza di un valido rapporto giuridico, vi siano materialmente delle prestazioni di lavoro effettive. Tale lettura, secondo la Corte, è conforme al più recente orientamento espresso dalla Corte di Cassazione (cfr. Cass., Sez. Lav., 21 novembre 2016, n. 23645; Cass. 30 giugno 2016, n. 13472; Cass. 25 gennaio 2016, n. 1256; Cass. 3 febbraio 2012, n. 1639; Cass. 11 febbraio 2011, n. 3385); lettura coerente alla nozione di retribuzione ricavabile dalla Costituzione (art. 36) e dal codice civile (artt. 2094, 2099), per cui il diritto a percepirla sussiste solo in ragione (e in proporzione) della eseguita prestazione lavorativa.
Nel merito, ad avviso del Collegio, la previsione che il datore di lavoro inottemperante all’ordine di reintegrazione, sia tenuto a corrispondere al lavoratore, in via sostitutiva, un’«indennità risarcitoria» – non è affatto «irragionevole», come sospetta il rimettente, bensì coerente al contesto della fattispecie disciplinata, «connotata dalla correlazione di detta indennità ad una condotta contra ius del datore di lavoro e non ad una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente».
L’indennità prevista dalla norma esaminata rivela infatti una costruzione coerente: essa è deputata a risarcire il lavoratore del «lucro cessante», ossia, del mancato guadagno subito, dapprima, per effetto del licenziamento illegittimo e, poi, a causa della mancata ottemperanza all’ordine di reintegrazione; per ciò l’indennità è correlata all’ultima retribuzione globale di fatto; e, sempre in tale prospettiva, si spiega e si giustifica l’ulteriore previsione della detrazione dell’aliunde perceptum e dell’aliunde percipiendum.
A giudizio della Corte, inoltre, sono infondati anche i timori manifestati dal Tribunale circa l’irrazionalità di un sistema che premia la «scommessa» del datore di lavoro su una propria vittoria finale e che lo induce a violare l’ordine impartito dall’Autorità giudiziaria, a scapito del datore ottemperante.
Rileva infatti la Corte che tale scommessa non è priva di un costo: il datore che, medio tempore, adempie all’ordine di reintegrazione del dipendente riceve, quale corrispettivo dell’esborso retributivo, una controprestazione lavorativa, che manca invece al datore di lavoro inadempiente; se questi perderà la propria scommessa, infatti, avrà sostenuto il costo del rapporto per l’intera durata della vicenda giudiziaria senza ricevere in cambio alcuna prestazione.
I due datori di lavoro, insomma, danno luogo a due situazioni non omogenee e non suscettibili, per ciò, di entrare in comparazione nell’ottica dell’art. 3 Cost.
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