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Il caso in cui ha dovuto pronunciarsi la suprema corte riguarda una lavoratrice che dopo essere stata licenziata illegittimamente dal curatore ha chiesto il riconoscimento di crediti relativi a somme maturate dopo il licenziamento.
L’art. 2119 comma 2 del cod. civ. stabilisce che “ il fallimento non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto” e si coordina con l’art. 72 R.D. 16 marzo 1942, n. 267 il quale prevede che, in caso di “vendita non ancora eseguita da entrambi i contraenti”, “l’esecuzione del contratto rimane sospesa fino a quando il curatore, con l’autorizzazione del giudice delegato, dichiari di subentrare in luogo del fallito nel contratto, assumendone tutti gli obblighi relativi, ovvero di sciogliersi dal medesimo”. Pertanto nel lasso di tempo tra la dichiarazione di fallimento che ripetiamo non costituisce giusta causa di licenziamento e la ripresa dell’esercizio provvisorio dell’attività il rapporto di lavoro rimane sospeso con l’assenza delle obbligazioni delle parti cioè la prestazione lavorativa e la relativa corresponsione della retribuzione.
Nel momento in cui il curatore subentra e l’attività d’impresa riprende, lo stesso ha la facoltà di decidere se proseguire o cessare il rapporto di lavoro sottoponendosi alle stesse regole dei licenziamenti individuali e collettivi, non essendo in alcun modo sottratto ai vincoli propri dell’ordinamento lavoristico perché la necessità di tutelare gli interessi della procedura fallimentare non esclude l’obbligo del curatore di rispettare le norme in generale previste per la risoluzione dei rapporti di lavoro (cfr. Cass. 23 settembre 2011, n. 19405; Cass. 11 novembre 2011, n. 23665).
In questo caso la lavoratrice dopo avere ottenuto il riconoscimento del licenziamento illegittimo si era vista negare le somme non percepite ai sensi dell’art. 18, comma 4, della legge 20 maggio 1970, n. 300 ( all’epoca vigente) dalla Corte di Appello la quale aveva affermato che in virtù della dichiarazione di fallimento e la successiva sospensione del rapporto di lavoro, la lavoratrice non poteva pretendere il riconoscimento del credito, ancorché per quello relativo al licenziamento dichiarato illegittimo dalla Sezione lavoro dato che era assente la prestazione lavorativa.
La lavoratrice impugnava in cassazione Sezione lavoro la quale nel decidere la vertenza, accoglie il ricorso della lavoratrice, affermando il principio di diritto che, ove il curatore decida, dopo la dichiarazione di fallimento, di interrompere il rapporto di lavoro con il dipendente ma il recesso risulti illegittimo, quest’ultimo è ammesso al passivo del fallimento dell’azienda per il riconoscimento degli stipendi e del TFR. la S.C. afferma in conclusione che nel caso di specie la Corte d’Appello è caduta in errore nel negare l’ammissione al passivo del fallimento della lavoratrice per i crediti di lavoro relativi al periodo successivo al licenziamento della medesima, ciò significando che fino a quando il curatore non effettua la scelta tra subentrare nel rapporto di lavoro pendente ovvero sciogliersi da esso, detto rapporto, in assenza di prestazione, pur essendo formalmente in essere, rimane sospeso e, difettando l’esecuzione della prestazione lavorativa, viene meno l’obbligo di corrispondere al lavoratore la retribuzione. Ma una volta attuata la scelta, realizzata mediante il licenziamento della dipendente, la curatela resta esposta alle conseguenze patrimoniali derivanti dalla declaratoria di “inefficacia” del recesso per violazione della legge n. 223/1991 sui licenziamenti collettivi.
Rag. Piergiorgio Cefaro – Vietata la riproduzione anche parziale